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Prevenire l’Alzheimer: meglio che curarlo (1/2)

L’articolo di Sam Gandy su Nature (link) dal titolo Perspective: Prevention is better than cure affronta la tematica della prevenzione, arma inportante e forse decisiva nella lotta all’Alzheimer. Infatti i tentativi di riduzione della β-amiloide nel cervello ancora non mostrano benefici clinici. La più grande speranza è iniziare il trattamento in fase precoce.

Nel 1907, lo psichiatra bavarese Alois Alzheimer pubblicò la sua descrizione di una donna delirante che aveva lentamente perso ogni funzione cognitiva e morì all’età di 55 anni. Nei decenni successivi, a causa dell’età del paziente, la “demenza presenile di Alzheimer” è stata considerata una malattia rara della mezza età. Negli anni ’70 i neuropatologi si resero conto che la “demenza senile” era indistinguibile dalla malattia descritta da Alzheimer. Il quadro clinico di disfunzione cerebrale progressiva, in associazione con il reperto anatomo patologico cerebrale post-mortem di depositi di amiloide extracellulare (“placche”) e intraneuronale è stata ribattezzata “malattia di Alzheimer” e la sua definizione è stata ampliata per includere la principale causa di demenza che oggi conosciamo.

L’accumulo di placche amiloidi è la caratteristica distintiva della malattia di Alzheimer e la ricerca negli anni 80 ha identificato la principale proteina delle placche nel peptide β-amiloide. Negli anni ’90, gli scienziati hanno collegato la patologia della β-amiloide con i geni che codificano per tre proteine: la proteina precursore della β-amiloide (APP), che è attaccata dalla γ-secretasi per creare β-amiloide e due forme di presenilina (presenilina 1 e presenilina 2 ), che sono coinvolti nella produzione di β-amiloide. Insieme, le mutazioni in questi geni determinano circa il 3% di casi di Alzheimer e l’inserimento di una di queste mutazioni nel genoma del topo ha creato il primo topo transgenico per formare placche amiloidi.

Ma per quanto riguarda l’altro 97 % dei malati di Alzheimer? In linea generale si potrebbe ritenere che la patologia da β-amiloide potrebbe essere la responsabile di tutte le forme della malattia di Alzheimer. Meno di cinque anni dopo la realizzazione dei topi che formano la placca sono stati identificati i primi farmaci e vaccini in grado di ridurre la β-amiloide. Tuttavia le prime sperimentazioni umana dei farmaci non sono state interpretabili, perché non hanno previsto metodi per misurare la quantità di β-amiloide nel cervello.

Quest’ostacolo è stata superato nel 2004 utilizzando la tomografia ad emissione di positroni per identificare le placche amiloidi.

L’Alzheimer può iniziare 20 anni prima che la mente mostri segni di deficit cognitivo. Ed è qui che il settore si è fermato per sei anni. Poi, nel 2010, ricercatori dell’Università di Turku in Finlandia hanno dimostrato che l’immunoterapia con un anticorpo monoclonale anti-β-amiloide abbassava la percentuale delle placche di circa il 25 % . Purtroppo, però, il trattamento, una infusione di anticorpi ogni tre settimane per un anno e mezzo, non ha portato benefici cognitivi per il paziente. Perché l’immunoterapia riduce le placche cerebrali ma non riesce a fermare il declino cognitivo? Forse un anno e mezzo non è abbastanza lungo o forse un 25% di riduzione delle placche è ancora insufficiente. Per verificare questa possibilità gli esperimenti con l’immunoterapia continuano e i risultati sono attesi nel 2013. Un’altra possibilità è che l’anticorpo monoclonale usato potrebbe non riconoscere la conformazione di β-amiloide più neurotossica. Allo stato sono in fase di sperimentazione clinica decine di diversi anticorpi monoclonali, come pure l’immunoglobulina per via endovenosa, nella speranza che uno o più sostanze possano riconoscere e neutralizzare le forme più neurotossiche di β-amiloide. C’è almeno un’altra interpretazione dello studio di Turku: la terapia per abbassare i livelli di β-amiloide non avrà mai successo nei pazienti sintomatici. Dati di imaging cerebrale di individui presintomatica portatori della mutazione per la presenilina 1  mostrano che l’accumulo di placche inizia 10-20 anni prima che compaiono i sintomi clinici. Quindi se i soggetti vengono reclutati al primo segno di deficit cognitivo, potrebbero già aver prodotto una quantità sostanziosa di  β-amiloide neurotossica.

La migliore speranza per le terapie rivolte a ridurre i livelli di β-amiloide, quindi, è di dosi a scopo profilattico in fase precoce. Di recente è stata proposta una categoria diagnostica di “malattia di Alzheimer presintomatica” per i soggetti con biomarcatori positivi ma senza evidenza di malattia, cognitivamente intatti. Tuttavia, in assenza di un test per prevedere chi svilupperà la malattia di Alzheimer e quando, gli studi di prevenzione sono molto scoraggianti per quanto riguarda le dimensioni della coorte, la durata  e i costi. Il punto di partenza più ovvio è con i portatori di presenilina 1, presenilina 2 o mutazioni di APP, dove rischio di malattia ed i tempi di insorgenza sono altamente prevedibili.

Il Dominantly Inherited Alzheimer Network è stato fondato per individuare i portatori di
mutazioni patogenetiche in tutto il mondo ed inserirli in studi di prevenzione con agenti che riducono la β-amiloide.

La odissea della β-amiloide  degli ultimi 25 anni ha dimostrato che la lotta alla malattia di Alzheimer non è una questione di rimozione delle placche di β-amiloide dal cervello post hoc . Ma il ruolo della β-amiloide deve essere chiarito, e la  ricerca di interventi efficaci deve essere finalizzata ad un buon fine.

La Malattia di Alzheimer è già un problema per i sistemi sanitari dei paesi occidentali ed è una minaccia crescente per via di sviluppo. Il miglior argomento per incrementare le strategie per abbassare i livelli di β-amiloide è che composti sicuri ed efficaci sono a portata di mano. Perfezionare la selezione dei soggetti e la tempistica di intervento potrebbe ritardare l’insorgenza della malattia di Alzheimer in modo sostanziale. Un secolo di impegno ci ha portato ad un modello razionale di come il morbo di Alzheimer potrebbe cominciare, e non dobbiamo essere scoraggiati dalla prospettiva di un altro decennio o due di lavoro per risolvere definitivamente la questione della β-amiloide e, in definitiva, la sconfitta della malattia. Gli interventi di profilassi per abbassare i livelli di β-amiloide sono ora la migliore speranza.

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