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Prevenire l’Alzheimer: meglio che curarlo (2/2)

L’articolo di Sam Gandy su Nature (link) prosegue affermando che il problema sulla quantificazione dell’efficacia della terapia contro l’amiloide è stato superato nel 2004 utilizzando la tomografia ad emissione di positroni.

L’Alzheimer può iniziare 20 anni prima che la mente mostri segni di deficit cognitivo. Ed è qui che il settore si è fermato per sei anni. Poi, nel 2010, ricercatori dell’Università di Turku in Finlandia hanno dimostrato che l’immunoterapia con un anticorpo monoclonale anti-β-amiloide abbassava la percentuale delle placche di circa il 25 % .

Purtroppo, però, il trattamento, una infusione di anticorpi ogni tre settimane per un anno e mezzo, non ha portato benefici cognitivi per il paziente. Perché l’immunoterapia riduce le placche cerebrali ma non riesce a fermare il declino cognitivo? Forse un anno e mezzo non è abbastanza lungo o forse un 25% di riduzione delle placche è ancora insufficiente. Per verificare questa possibilità gli esperimenti con l’immunoterapia continuano e i risultati sono attesi nel 2013. Un’altra possibilità è che l’anticorpo monoclonale usato potrebbe non attaccare la conformazione di β-amiloide più neurotossica. Allo stato sono in fase di sperimentazione clinica decine di diversi anticorpi monoclonali, come pure l’immunoglobulina per via endovenosa, nella speranza che uno o più sostanze possano riconoscere e neutralizzare le forme più neurotossiche di β-amiloide. C’è almeno un’altra interpretazione dello studio di Turku: la terapia per abbassare i livelli di β-amiloide non avrà mai successo nei pazienti sintomatici. Dati di imaging cerebrale di individui presintomatici portatori della mutazione per la presenilina 1  mostrano che l’accumulo di placche inizia 10-20 anni prima che compaiono i sintomi clinici. Quindi se i soggetti vengono reclutati al primo segno di deficit cognitivo, potrebbero già aver prodotto una quantità sostanziosa di  β-amiloide neurotossica.

La migliore speranza per le terapie rivolte a ridurre i livelli di β-amiloide, quindi, è di dosi a scopo profilattico in fase precoce. Di recente è stata proposta una categoria diagnostica di “malattia di Alzheimer presintomatica” per i soggetti con biomarcatori positivi ma senza evidenza di malattia, cognitivamente intatti. Tuttavia, in assenza di un test per prevedere chi svilupperà la malattia di Alzheimer e quando, gli studi di prevenzione sono molto scoraggianti per quanto riguarda le dimensioni della coorte, la durata  e i costi. Il punto di partenza più ovvio è con i portatori di presenilina 1, presenilina 2 o mutazioni di APP, dove rischio di malattia ed i tempi di insorgenza sono altamente prevedibili.

Il Dominantly Inherited Alzheimer Network è stato fondato per individuare i portatori di mutazioni patogenetiche in tutto il mondo ed inserirli in studi di prevenzione con agenti che riducono la β-amiloide.

La odissea della β-amiloide  degli ultimi 25 anni ha dimostrato che la lotta alla malattia di Alzheimer non è solo una questione di rimozione delle placche di β-amiloide dal cervello post hoc . Ma il ruolo della β-amiloide deve essere chiarito, e la  ricerca di interventi efficaci deve essere finalizzata ad un buon fine.

La Malattia di Alzheimer è già un problema per i sistemi sanitari dei paesi occidentali ed è una minaccia crescente per via di sviluppo. Il miglior argomento per incrementare le strategie per abbassare i livelli di β-amiloide è che composti sicuri ed efficaci siano a portata di mano. Perfezionare la selezione dei soggetti e la tempistica di intervento potrebbe ritardare l’insorgenza della malattia di Alzheimer in modo sostanziale. Un secolo di impegno ci ha portato ad un modello razionale di come il morbo di Alzheimer potrebbe cominciare, e non dobbiamo essere scoraggiati dalla prospettiva di un altro decennio o due di lavoro per risolvere definitivamente la questione della β-amiloide e, in definitiva, la sconfitta della malattia. Gli interventi di profilassi per abbassare i livelli di β-amiloide sono, allo stato, la migliore speranza.

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