La storia dell’amiloide (link) è, come visto finora complessa e ricca di dettagli.
Altri ricercatori sull’Alzheimer hanno approfondito il ruolo dell’eccesso di APP. Ma tre aspetti importanti della ricerca iniziale di Beyreuther e Masters vennero del tutto trascurati per la maggior parte del decennio successivo.
Il primo è stato una osservazione di Beyreuther sulle forme di A4 in diverse miscele di solventi. L’autore notò la presenza di gruppi stabili, o oligomeri, fatto di copie di due, quattro o più A4. Era così forte la tendenza del peptide a formare questi oligomeri che in certe soluzioni i dimeri composti da due copie di A4 erano prevalenti sui monomeri.
Il secondo indizio è che l’intera A4 tende ad aggregare. Dopo aver ottenuto l’intera sequenza A4, Beyreuther cominciò a sintetizzarne in laboratorio diverse lunghezze, tra cui una serie che iniziava al quarantaduesimo (e terminale) aminoacido della sua variante più lunga e proseguiva verso l’estremità opposta. “Quando siamo arrivati vicino alla fine del peptide e lo abbiamo tolto dalla resina, abbiamo visto che aggregava”, ricorda, “Ho pensato ‘Mein Gott’, nevica. Aggregava in maniera rapidissima. E’ stato orribile”.
Il terzo indizio è venuto dopo che Beyreuther e Masters ottennero il primo anticorpo contro l’A4 e lo usarono per individuare i depositi di amiloide nei cervelli sottoposti ad autopsia con una sensibilità senza precedenti. I depositi erano molto più estese di quanto si pensasse e sono stati quasi sempre presenti in persone di età superiore agli 80 anni di età. Nei cervelli giovani le placche tendevano ad essere più rade e diffuse, ma erano rilevabili anche in circa il 20 % delle persone cognitivamente normali che erano morti nella cinquantina. Ciò implica che la malattia di Alzheimer è quasi inevitabile, con le placche che cominciano a formarsi nel cervello tre decenni prima che i sintomi si sviluppino.
Alla fine degli anni 1980, Beyreuther e Masters avevano in gran parte completato il lavoro di ricerca sull’A4. Altri scienziati, per lo più dagli Stati Uniti, stavano conducendo ricerche sul’Alzheimer e uno dei loro primi atti fu quello di rinominare la proteina A4 in ß-amiloide, dove il ß si riferisce alla classica struttura molecolare ß-sheet delle amiloidi. Contribuirono anche a ridurre l’enfasi sulla precedente connessione ai prioni.
La ricerca sembrava muoversi rapidamente verso la comprensione su come la ß-amiloide provoca l’Alzheimer. Nella prima metà degli anni ’90 studi in vitro hanno indicato che la ß-amiloide diventa tossica per i neuroni quando comincia ad aggregare. Studi genetici di famiglie con malattia di Alzheimer ad esordio precoce hanno rilevato mutazioni nel gene che codifica APP, e l’analisi di uno di questi geni mutanti di APP ha mostrato che provoca una produzione di ß-amiloide sette volte eccessiva. Topi transgenici che sovraproducono APP umana e ß-amiloide sviluppano placche simili a quelle osservate nella malattia di Alzheimer e il loro comportamento nei test standard suggerisce la presenza di un qualche deficit cognitivo. L’ipotesi amiloide sembrava semplice: quando la concentrazione di ß-amiloide nel cervello diventa troppo alta, le proteine aggregano in fibrille e placche che iniziano a uccidere i neuroni.
Presto diventò chiaro che la situazione non era così semplice. Ulteriori studi genetici hanno dimostrato che la forma familiare ad esordio precoce di Alzheimer è causata non dalla sovrapproduzione di ß-amiloide totale, ma dalla sovrapproduzione relativa di una variante meno comune di ß-amiloide conosciuta come Aß42, la cui lunghezza è di 42-aminoacidi, la variante dalla estrema propensione all’aggregazione che aveva così allarmato Beyreuther.
I risultati con l’Aß42 erano coerenti con l’ipotesi della placca, soprattutto perchè a metà degli anni 1990 si vide che in molte placche la variante era l’Aß42. Il problema era che i modelli murini con una dose eccessiva di Aß42, quali quelli con sovraespressione di APP, non presentavano le gravi perdite neuronali e cognitive associate alla malattia umana. Alcuni ricercatori sostennero che i topi, con il loro piccolo cervello e vita più breve, non possono costituire un modello di una grande malattia cerebrale a lenta evoluzione. Ma un’altra possibilità, che ha preso consistenza alla fine degli anni 90, è che le placche di ß-amiloide non sono le reali responsabili della demenza. Studi autoptici hanno mostrato, per esempio, che l’evoluzione della demenza di Alzheimer non correla bene con lo sviluppo delle placche. Come Beyreuther e Masters avevano inizialmente osservato, le placche diventano evidenti nel cervello molto prima dei segni di declino cognitivo.
Purtroppo, le principali aziende farmaceutiche avevano già scommesso sull’ipotesi placche di ß-amiloide e numerosi programmi di sviluppo hanno continuato a fallire negli studi clinici. Ma nel frattempo, un piccolo gruppo di ricercatori aveva cominciato a sviluppare una nuova ipotesi che comprendeva l’Alzheimer e una serie di altre malattie con presenza di amiloide.
(continua)