Riporto integralmente il fondo “Teniamoci a distanza” di Domenico Starnone, sulla pandemia da coronavirus, pubblicato su Internazionale nr.1348.
È bene scansarci ancora più di quanto già ci scansavamo. Basta con i blandi tentativi di comunità, comunanza, comunione, persino comunella. Parlarsi sì, ma dopo aver preso bene le misure. Sedersi sì, ma senza nessuno a lato.
E niente stretta di mano, aboliamo questo vecchio segnale che pare servisse a dire: fidati, non sono armato.
Se prima del coronavirus “fidarsi è bene” aveva ancora una sua forza, ora trionfa la seconda parte del proverbio: “non fidarsi è meglio”. E intanto tutto si muove in modo imprevedibile. Fino a poco fa, arroccarci tra noi italiani, temere l’estraneo specie se migrante, pareva la soluzione vincente. Ora, nell’immaginario, la nazione, il nazionalismo e persino l’orgoglio regionale o di campanile, davanti al virus paiono ridotti ai cubicoli domestici o d’ospedale.
Bene dunque? Sì, se si potesse ipotizzare che la minaccia di contagio e di rovina economica ci modificherà la testa al punto da spingerci a riconoscere il nostro prossimo nei milioni di profughi che sperimentano terrori ben più significativi dei nostri.
Ma non va così, basta dare un’occhiata ai greci. Se la disperazione spinge i migranti ad accorciare le distanze, noi, che ormai le distanze le marchiamo con connazionali, condomini, amici e familiari, ancora di più le vogliamo marcare con loro, evitando di tendere la mano e caso mai sparandogli addosso.
Abbiamo evitato i cinesi, siamo stati emarginati dal resto del mondo, eppure la malattia si diffonde. Il virus non chiede il passaporto. Teniamoci a distanza, si, ma vicini vicini.