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Barthes: la camera chiara. Nota sulla fotografia

La moda dei selfie ed una possibile interpretazione alla luce dei concetti di Roland Barthes

Barthes

E’ possibile una attualizzazione del pensiero di Barthes sulla fotografia?

Da tempo volevo leggere il saggio di Roland Barthes sulla fotografia. Scritto pochi mesi prima della sua morte è un’opera profonda, difficile e quasi un testamento. Leggendo il testo la prima impressione è che questo può assumere varie valenze in relazione a quanto il lettore si aspetta: fotografia, arte, tecnica, vissuto personale e quant’altro può essere presente in un dato momento nella mente di una persona. Va inoltre tenuto conto del fatto che il concetto di fotografia si è evoluto. Sono convinto che non si può più affermare con certezza che la “fotografia non sia classificabile”. La fotografia non è più solo la ripetizione meccanica di “ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente”. Ed è proprio la tecnica, in uno con la diffusione delle apparecchiature fotografiche (dalle reflex agli smartphone) che ha modificato il concetto. Lo stesso soggetto può essere ripetuto infinite volte nello stesso momento da infinite persone o infinite volte in momenti diversi da un unico autore. Inotre se Barthes distingueva tre elementi fondamentali dell’arte fotografica: l’operator, colui che fa la foto, lo spectator, il fruitore, e lo spectrum, la persona fotografata, al giorno d’oggi questa classificazine appare rigida. Soprattutto lo spectator non è più solo un fruitore. L’autore a sua volta diventa spettatore in quanto la sua foto può essere ripresa, riproposta e/o modificata, integrata da commenti e likes, trascendendo da quella immutabilità che, allora sì era così, vedeva il filosofo. Anche i concetti di “studium” e “punctum” (l’aspetto razionale e quello emotivo) perdono la caratteristica di staticità assumendo una valenza variabile in relazione a diversi fattori. Barthes concentrò la sua attenzione sulla foto ritratto che definisce un campo chiuso di forze con interazione dinamica e modificante di quattro diverse immagini: ciò che uno crede di essere, ciò che vuole che credano, ciò che il fotografo crede uno sia e ciò di cui il fotografo si serve per produrre. In quell’unico ed immutabile attimo il soggetto diventerebbe oggetto, sperimentando una piccola esperienza di morte.  E’ ancora così? gli elementi sono ancora quattro o di meno? o di più? Come spiegare il fenomeno dilagante del selfie dove l’operator è al tempo stesso anche spectator e spectrum? Il riprendersi più volte e divulgare la propria foto assume valenze differenti. Comunica “io ci sono”, “sono io”,  “sono vivo” ma anche “dovessi morire questo è quello che continuerà di me”, una forma di auto rassicurazione, un rito propiziatorio, se non anche una forma di suicidio inconscio, un desiderio di morte. Tanto più che in questa condizione appare di secondaria importanza lo “studium”, spesso risolto con la tecnologia, sempre più avanzata, user friendly se non indipendente dal fotografo. Prevarrebbe l’aspetto emotivo, il “punctum” con attualizzazione delle considerazioni espresse da Roland Barthes nella seconda parte del suo libro, quelle relative alla madre e che ancora oggi consentono ad ognuno di noi di rivivere esperienze ed emozioni passate, remote o prossime, in un contesto al tempo stesso personale ed universale.

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