Interessante l’articolo di apertura dell’ultimo numero di Internazionale
In uno studio condotto qualche anno fa dall’università di Yale, è stato chiesto a un gruppo di studenti di dare un voto alla loro conoscenza del funzionamento di alcuni oggetti d’uso quotidiano, tra cui lo sciacquone del bagno. Poi gli è stato chiesto di scrivere una spiegazione dettagliata del funzionamento degli stessi oggetti e infine di dare un nuovo voto al loro livello di conoscenza.
Lo sforzo di spiegare rivelava agli studenti quanto poco ne sapessero, e infatti il secondo voto era sempre più basso del primo.
Steven Sloman e Philip Fernbach, due psicologi cognitivi, hanno chiamato questo meccanismo “illusione della profondità esplicativa”: pensiamo di sapere più di quello che effettivamente sappiamo.
Ed è una delle ragioni per cui ci sentiamo autorizzati a esprimere delle opinioni più o meno su ogni cosa. Invece dovremmo seguire il consiglio di Rebecca Solnit: “Viviamo in un’epoca in cui le persone pensano di dover avere un’opinione su tutto, e per arrivarci ignorano i fatti, esprimono giudizi senza nessuna base concreta e li diffondono come se fossero fatti, quando i veri fatti non sono mai stati scoperti, analizzati o controllati.
Molte volte non è possibile arrivare a una conclusione certa a partire da un’azione o da un’affermazione, e non dovremmo neanche provarci. Non c’è bisogno di avere un’opinione su tutto e ogni opinione che esprimiamo dovrebbe essere basata su fatti concreti.
Non c’è nulla di male a dire ‘non lo so’: spesso è la posizione più onesta e corretta.
Dobbiamo imparare a riconoscere la differenza tra opinioni e fatti, tra un sospetto (o pregiudizio) e una verità accertata. Una cosa di cui mi rendo sempre più conto è che le falsità pubbliche (le cosiddette fake news) non ci vengono imposte, richiedono la nostra collaborazione attiva.
Possiamo scegliere di accettare e diffondere bugie, voci e interpretazioni, oppure possiamo rifiutarci di farlo, e ammettere che spesso non sappiamo”