Continuando l’esposizione del numero monografico di Nature sull’Alzheimer oggi è la volta dell’articolo di Ruth Williams (link) dal titolo Biomarkers: segnali di pericolo.
Allo stato la diagnosi definitiva della malattia di Alzheimer è possibile solo con l’analisi post-mortem del cervello. E’ quindi evidente come sia importante valutare la persona in vita allo scopo di trovare un marker affidabile che possa dirci chi ammalerà di Alzheimer e in quale fase della malattia si trova. Un indicatore di questo tipo è utile in clinica e nella sperimentazione di nuovi farmaci.
Premesso che l’ipotesi prevalente è che la deposizione di proteina β-amiloide porta alla formazione di placche amiloidi insolubili tra le cellule cerebrali e che queste placche sono implicate nella disfunzione e nella morte delle cellule cerebrali tutte le ricerche in materia sono orientate su tale sostanza.
In America è attivo dal 2004 uno studio, ADNI, il cui obiettivo è trovare marcatori biologici che possono contribuire a determinare in che modo avanza la malattia e prevederne la risposta al trattamento. Lo sforzo ha già convalidato un marker sensibile trovato in alcuni piccoli studi. Il progetto è finanziato con 160 milioni di dollari in uno sforzo congiunto del National Institutes of Health (NIH), venti delle più grandi aziende farmaceutiche del mondo del mondo, tra cui Merck, AstraZeneca, Pfizer e della GSK, e due partner senza scopo di lucro, l’Alzheimer Association e l’Alzheimer’s Disease Drug Discovery Foundation. Finora sono stati reclutati 1.000 volontari in 59 centri negli Stati Uniti e Canada mentre altri centri di collaborazione sono stati istituiti in Europa, Giappone, Australia e altrove. Scopo dichiarato è stabilire una rete mondiale di siti che impiegano metodi simili e condividono i dati
Altri studi sono comunque in corso. Decine di gruppi di ricerca analizzano le immagini del cervello, variazioni di sequenza del DNA e modelli nell’espressione di geni, proteine e molecole immunitarie. In ogni caso l’obiettivo è quello di identificare le differenze misurabili che siano di aiuto alla diagnosi della malattia di Alzheimer o riflettere la sua progressione.
Degli 800 volontari reclutati in origine, 200 erano affetti da Alzheimer, 400 da decadimento cognitivo lieve (MCI), una condizione ad alto rischio di progressione verso la malattia di Alzheimer, e 200 erano controlli sani appaiati per età. Per misurare l’attività metabolica del cervello è stata utilizzata la PET-FDG e per misurare il volume di regioni specifiche del cervello è stata usata la risonanza magnetica. Inoltre sono stati registrati i livelli di varie sostanze chimiche nel sangue e nel liquor, tra cui la β-amiloide, la proteina tau, i sulfatidi (componenti della membrana delle cellule nervose), gli soprostani (marker di stress ossidativo) e l’omocisteina (un aminoacido), che possono essere alterati nella malattia di Alzheimer. I risultati stanno chiarendo molte cose: alcune misure hanno cominciato ad essere viste come molto promettenti, mentre altre sono cadute nel dimenticatoio. I livelli di sulfatidi, isoprostani e omocisteina nel liquor, ad esempio, non correlano con il rischio di Alzheimer o di progressione della malattia. Un altro potenziale marker, il livello di omocisteina nel plasma, potrebbe aiutare a distinguere tra MCI e controlli sani ma non tra MCI e il morbo di Alzheimer.
Alla fine, i ricercatori hanno identificato due biomarcatori sensibili nel liquor per la rilevazione di malattia di Alzheimer e per prevedere il passaggio da MCI al morbo di Alzheimer. Uno è il livello totale di proteine tau, l’altro è il livello di β-amiloide. Il miglior marcatore liquorale per il declino funzionale in soggetti sani è la tau-P (proteina tau fosforilata).
(continua)